Magistratura, un disegno di legge del Pri Cambiare la composizione del Csm

Giustizia: la lezione che ci giunge dalla Costituente

Riproduciamo il testo del disegno di legge costituzionale (illustrazione e articoli) su iniziativa dell'onorevole Francesco Nucara, comunicato alla presidenza della Camera il 27 giugno 2008. Vi si prevedono modifiche degli articoli 87 e 97 e del Titolo IV della Costituzione: nuovi criteri di nomina dei vertici della Magistratura e modifica della composizione del Consiglio superiore della magistratura.

I criteri di selezione dei magistrati e il tema di come garantire l'indipendenza del giudice, evitando al contempo la tentazione della magistratura di chiudersi in "un angusto sentimento di casta", furono temi su cui a lungo si soffermò l'Assemblea Costituente.

In particolare furono avanzate perplessità sull'adozione del sistema del concorso come unica forma di accesso alla magistratura e si alimentarono dubbi sull'affidamento della nomina dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio Superiore della Magistratura.

Così, quando, alla seconda sezione della Seconda Sottocommissione nella seduta antimeridiana del 10 gennaio 1947 si discusse della nomina dei capi delle corti giudiziarie, l'onorevole Calamandrei rilevò come fosse qui in gioco l'indipendenza dei giudici: "non come corpo" – egli disse – "di fronte agli altri poteri dello Stato, ma come individui nei riguardi delle possibili influenze da parte di qualsiasi superiore. Indubbiamente il modo come sono scelti i capi degli uffici direttivi delle Corti può influire sull'indipendenza del magistrato; sarebbe perciò auspicabile introdurre una profonda rinnovazione, e cioè il principio della eleggibilità. I presidenti delle Corti di appello dovrebbero essere eletti, o quanto meno designati, dai magistrati del distretto e questo principio, se accolto, dovrebbe essere sancito nella Costituzione". L'onorevole Leone si dichiarò contrario a tale principio, perché se da una parte avrebbe salvaguardato l'indipendenza della Magistratura, da un'altra parte avrebbe creato non pochi inconvenienti. Di qui la sua proposta di far nominare i capi delle Corti periferiche dal Consiglio superiore della magistratura, "demandando la nomina dei capi della Corte Suprema (Primo Presidente e Procuratore generale) al Capo dello Stato, su designazione o del Consiglio dei Ministri o del potere legislativo (Assemblea Nazionale)".

E in sede di adunanza plenaria della Commissione dei 75 l'onorevole Terracini tornò sull'argomento, affermando che "sarebbe stato lieto se avesse potuto ottenere che almeno per i primi gradi della Magistratura si fosse introdotto il principio elettivo e notando al riguardo come negli Stati dove c'è una Magistratura elettiva – e non soltanto nei gradi più bassi – la questione del requisito non già di una cultura tecnica, ma di una cultura generale, non ha mai rappresentato un ostacolo, perché appunto sono necessarie altre doti e altri elementi di capacità".

Nel corso della discussione in Assemblea, poi, nella seduta del 12 novembre 1947, l'onorevole Gullo si espresse così: "... in uno stampato, che i magistrati hanno fatto distribuire a tutti noi, essi, dopo aver affermato che ‘bisogna che la scelta avvenga solo a mezzo di concorso nazionale per esami' avvertono la necessità di aggiungere: ‘il che conferisce ai magistrati la qualità di rappresentanti sia pure indiretti del popolo'". In realtà è veramente strano pensare che basti un concorso, per conferire questa rappresentanza.

Che cos'è il concorso, questa fonte da cui i magistrati vengono tratti? Alcuni esami, e si può anche ammettere che siano esami difficili. Non sono, comunque, insuperabili, anche da chi non sia fornito di speciale intelligenza. Sappiamo tutti che cosa siano gli esami. Ma anche a considerare che il concorso sia uno strumento di cernita perfetto, è da chiedere: che cosa si accerta attraverso il concorso? Si accerta al massimo la capacità dottrinale. Ma basta esser colto per essere giudice?.... Il fatto, che concorre a mostrare che cosa possa voler dire incamminarsi verso la creazione di una casta, di un ordine chiuso, è il decisamente ostile atteggiamento che hanno assunto i magistrati di fronte al profilarsi della possibilità di fare ricorso ad una Magistratura elettiva. E perché non dovrebbe pensarsi ad una Magistratura elettiva? Perché non dobbiamo affermare nella Costituzione (si intende senza scendere a dettagli, che rimandiamo al legislatore venturo), che la Magistratura può anche avere come sua fonte la elezione?

In sede di assemblea l'onorevole Gullo e l'onorevole Mugolino presentarono un emendamento affinché i magistrati fossero nominati, in alternativa al concorso, "in base al risultato delle elezioni nei casi e secondo i modi stabiliti dalla legge". L'onorevole Persico a sua volta presentò un emendamento del seguente tenore: "i giudici civili di pace e i pretori civili e penali saranno di nomina elettiva secondo le modalità che verranno stabilite per legge".

Né le indicazioni date da Leone e Calamandrei in sede di Sottocommissione, né gli emendamenti presentati da Gullo e da Persico furono accolti dall'assemblea. Essi comunque stanno a testimoniare come l'opportunità di adottare criteri meno "burocratici" per la selezione dei magistrati fosse stata ben presente all'attenzione del Costituente. Per quanto riguarda poi il problema di come garantire l'indipendenza della magistratura, senza peraltro "creare un potere giudiziario completamente avulso dagli altri poteri", era stata proposta dall'onorevole Leone e dall'onorevole Calamandrei una composizione del Consiglio superiore della magistratura che prevedeva che esso non fosse organo di esclusiva né prevalente espressione della magistratura. "La decisione – sostenne Leone in sede di Commissione dei 75 il 30 gennaio 1947 – di affidare la presidenza al Capo dello Stato e di stabilire che metà dei componenti del Consiglio siano elementi estranei eletti dall'Assemblea nazionale risolve una delle preoccupazioni sorte in sede di esame del progetto sul potere giudiziario: quella di evitare che attraverso l'autogoverno dato alla magistratura essa costituisca una specie di casta chiusa. Con tale decisione, infatti si è giunti ad avvicinare il più possibili il potere giudiziario agli altri poteri dello Stato". Del resto l'allora Ministro della giustizia onorevole Togliatti, in quella stessa adunanza plenaria del 30 gennaio 1947, avrebbe definito il CSM "un organismo il quale assume una funzione particolare di antidoto alla completa autonomia del potere giudiziario come tale". Il che lo portava a ritenere il fatto che il Consiglio Superiore fosse formato per metà da magistrati e per metà da membri eletti dall'Assemblea Nazionale un elemento che accresceva, non diminuiva, il prestigio della magistratura. In aula prevalse, però, alla fine, un emendamento dell'onorevole Scalfaro (due terzi di magistrati eletti dalla Magistratura ed un terzo di eletti dal Parlamento). Nella seduta pomeridiana del 12 novembre 1947, Scalfaro fu davvero tassativo: "non si avrebbe indipendenza – a suo dire – quando il Consiglio superiore avesse una maggioranza di non magistrati, o anche quando rimanesse quello che è scritto nel progetto, dove è previsto che metà dei membri siano magistrati e l'altra metà eletti dall'Assemblea fuori del suo seno". Difficile pensare ad una più orgogliosa, granitica integrale rivendicazione di una magistratura tesa a farsi Stato da sé, di per sé, guardando a sé. Come avrebbe in quello stesso pomeriggio del 12 novembre del 1947 obiettato Gullo, veniva così a dilatarsi quel carattere di sovranità riconducibile al potere di giurisdizione, attribuendolo all'organo. "Per necessità di cose", temeva Gullo, "un angusto sentimento di corporazione medievale avrebbe impedito ogni visione più ampia della giustizia come attività che interessa gli italiani e non soltanto i giudici".

Gli assetti di politica costituzionale e ancora più gli orientamenti consolidatisi avrebbero confermato molte delle preoccupazioni allora espresse da Gullo. Fino a vedere, in questo mezzo secolo, magistratura e giustizia, contrariamente alla previsione di Scalfaro, all'inseguimento quasi ossessivo di aggettivi che le qualificassero, le legittimassero, le nobilitassero, le rappresentassero. Ed è storia che giunge agli onerosi sforzi di riscrittura costituzionale della XIII Legislatura: quelli approdati alla nuova normativa sul giusto processo e quelli naufragati nelle ipotesi della Commissione bicamerale presieduta dall'onorevole D'Alema.

Due mali diversi

Il nostro sistema giustizia ha vissuto due diversi mali: da un lato una condizione di conflittualità dell'ordine giudiziario con gli altri poteri dello Stato, dall'altro una ormai congenita inefficienza (specie nel settore civile del contenzioso). Questi due aspetti apparentemente contraddittori hanno in realtà la stessa origine, cioè lo status della nostra magistratura. Ancorché questa sia riconosciuta come uno dei tre poteri dello Stato dalla Carta costituzionale (nonostante la dizione letterale sia quella più soft di "ordine") rimane, per scelta del legislatore e dell'interprete (si pensi alle decisioni del Consiglio superiore della magistratura in funzione di organo disciplinare), un mondo estraneo ad ogni logica e dinamica del circuito politico – democratico - rappresentativo. Eppure rispetto a questo modello di magistratura, scritto nella Costituzione e nelle leggi fondamentali dell'ordinamento, un altro è venuto affermandosi e radicandosi nella politica delle cose. Fino a determinare una imprescindibile lezione delle cose. Molto si è discusso, si discute, si discuterà sugli ambiti e i limiti della "lettura, interpretazione, creazione, lettura interpretativa e interpretazione creativa" del diritto da parte del magistrato. L'argomento evoca riferimenti, più o meno rituali, alla tipologia di magistrati di ieri e di oggi. Non senza l'ambizione di prefigurare come dovranno esserlo domani in un contesto di Costituzione Europea.

Sarà arduo in quel contesto conservare al nostro "terzo potere" quelle straordinarie condizioni di indipendenza ed assenza di controlli del suo operato e delle sue responsabilità. L'indipendenza non può che essere al servizio dell'imparzialità. Sicché una indipendenza della magistratura come corpo che agevoli una protezione anche della parzialità dei magistrati, oltre che una contraddizione, è una sciagura. Ed il caso italiano sembra spessissimo evocare proprio questi termini: massima indipendenza della magistratura in diritto e strettissima dipendenza in fatto del singolo magistrato dal corpo o corporazione della magistratura (Associazione, Consiglio superiore della magistratura, correnti organizzate).

In nome dell'indipendenza di tutti i magistrati, si perde la garanzia dell'imparzialità di ogni magistrato. Negli anni '50 (e ancora parecchi anni dopo) il giovane che, vinto il concorso, fosse entrato in magistratura, vi entrava con la convinzione (non impostagli coattivamente ma spontaneamente recepita da una concezione prevalente nella stessa famiglia dei magistrati) di essere diventato interprete di una legge preesistente all'atto dell'interpretazione, cioè lettore di un testo che nei suoi valori di sostanza non poteva essere messo in discussione. Buon magistrato era colui che, per capacità di ingegno e possesso di tecnica professionale, era capace di fornire la lettura più fedele possibile del testo normativo. In questa ottica ben poteva accadere, ed accadeva frequentemente, che il magistrato dovesse applicare contenuti normativi da lui non condivisi. Particolarmente per i più giovani esistevano norme già allora vissute come obsolete ed ingiuste; basti pensare a norme quali quelle sull'adulterio, sull'oltraggio, sull'assegno a vuoto. Ma era buon magistrato colui che, pur a malincuore, applicava la legge a lui sgradita. In quegli anni il concetto che di se stessa aveva la magistratura imponeva

che il giudice non dovesse fare giustizia, ma meno ambiziosamente limitarsi ad interpretare, cioè a "leggere", la legge. In questo quadro era impensabile che il singolo magistrato o, a maggior ragione, qualche rappresentanza ufficiale della magistratura esternasse critiche alla legge stessa.

Era indispensabile che l'interpretazione potesse essere resa in piena libertà di coscienza, cioè senza alcun condizionamento pratico all'autonomia intellettuale del magistrato. Valeva la grande norma costituzionale, secondo la quale il giudice è soggetto soltanto alla legge. Si trattava di garantire l'indipendenza del magistrato non soltanto nei confronti del potere esecutivo ma di qualsiasi altro ipotizzabile centro di potere economico, finanziario, partitico, sindacale, mediatico. In questo quadro anche l'indipendenza rispetto ai mezzi di comunicazione di massa diventa fondamentale, giacché è attraverso di essi che il giudice può essere condizionato dalla pubblica opinione; e invece è buon giudice colui che ha il coraggio di scrivere sentenze anche impopolari, giacché la legge se esistente è vincolante, anche se sgradita a molti e forse ai più. A un certo punto, però, si accreditò la tesi secondo la quale l'interpretazione non è, né può essere, una semplice lettura, ma è sempre e necessariamente un atto di creazione. Tesi, codesta, che sul piano meramente logico - formale contiene, ovviamente, una sua parte di verità, ma che finisce con il diventare un vero e proprio cavallo di Troia, se con essa si avalla la possibilità per il giudice di superare gli invalicabili limiti del testo normativo. Torna in mente quel gruppo di giuristi molto giovani, ma molto lungimiranti (tant'è che con il tempo hanno tutti avuto un grande

cursus honorum), che diede vita a una rivista dal titolo "Politica del diritto". Il titolo fece allora scalpore fra gli addetti ai lavori giacché la maggioranza, meno perspicace di quella minoranza, non aveva ancora percepito come il tempo della teoria del diritto puro fosse irrevocabilmente passato e come il diritto si avviasse ad una esplicita commistione con la politica. Da Kelsen, insomma, si stava riandando a Schmidt.

Torre d'avorio

Del resto, si era a lungo esortato il magistrato ad uscire dalla propria torre d'avorio per confrontarsi con le implicazioni sociali dell'applicazione del diritto. A tale esortazione, proveniente per lo più dal mondo della sinistra, aveva fatto eco l'articolarsi in correnti dell'Associazione Nazionale Magistrati ed il divenire le correnti il collettore principale dell'elezione al Consiglio Superiore, per il quale fu introdotto dalla metà degli anni '70 il metodo proporzionale. Metodo tutto ed esclusivamente riconducibile alla elezione di assemblee politiche e, quindi, di per sé portatore di divisioni e aggregazioni schiettamente politiche.

Ogni corrente dell'Associazione scelse così di essere collaterale a questa o a quella forza politica. Questa coloritura politica suscitò all'epoca qualche isolata critica, ma ogni voce di dissenso fu rapidamente travolta dalla forza delle cose (cioè, probabilmente dal sostanziale accordo tra i due partiti maggiori); cosicché, verso la fine della IX Legislatura, in un dibattito parlamentare l'onorevole Gianni Ferrara appartenente al gruppo della Sinistra indipendente poteva rivendicare ad alta voce i meriti culturali delle correnti che con la loro dialettica arricchivano di nuovi contenuti il ruolo della magistratura. L'affermarsi di questa nuova figura di magistrato veniva accelerato anche per altre strade.

Da ricordare un titolo del quotidiano "la Repubblica" che, a proposito della sentenza in un noto processo, gridava dalla prima pagina il proprio sdegno: "Assolti gli assassini". Veniva fatto così torto non soltanto ai prosciolti ma anche ai loro giudici, implicitamente accusati di insipienza o di connivenza, e finalmente anche e forse soprattutto alla pubblica opinione, che veniva così indirizzata a pensare che a fare le sentenze (giuste) dovessero essere i giornali e non i Tribunali. Contemporaneamente sulle reti televisive incominciarono ad andare di moda quei giochi in cui il conduttore con la sua gente rifà le bucce a sentenze già pronunciate, proponendo una verità diversa da quella giurisdizionale, ma più gradita a ciò che si presume sia la pubblica opinione. E così in conclusione di un processo lungo e complesso – di cui un giorno sarà interessante scrivere la storia – alla fine degli anni '80 il magistrato aveva abbattuto la torre d'avorio. Tutto era cambiato. Anche per chi rifiutava di accorgersene, un nuovo modello di magistratura si era completamente sostituito al precedente. Insistere qui sulle abissali differenze tra l'uno e l'altro modello sarebbe veramente un fuor d'opera; giacché del modo di atteggiarsi di questa nuova magistratura, del nuovo ruolo assunto di fronte ai problemi del nostro tempo, del suo modo di pensare se stessa, insomma della sua ideologia, le manifestazioni sono state e sono molteplici. Sia consentito un riferimento tecnico; e solo apparentemente laterale. Con una sentenza (la n. 500 del 2000) che non è enfatico definire storica, le Sezioni Unite della Cassazione - nell'affermare il principio della risarcibilità del danno da lesione dell'interesse legittimo - hanno anche affermato che una posizione giuridica soggettiva può (e deve) essere tutelata giurisdizionalmente anche se non è riconosciuta da una espressa norma dell'ordinamento.

Sono questi i cosiddetti interessi meritevoli di tutela, che però – secondo le stesse Sezioni Unite – non possono essere identificati a priori proprio perché non sono previsti in qualche previsione normativa. Ed allora, se del caso, come si farà a riconoscerli? La Cassazione non ha dubbi: sarà la giurisdizione, nel prudente esercizio del proprio potere discrezionale, a stabilire quale interesse sia meritevole di tutela e quindi ad essere trattato, sotto ogni punto di vista, come un vero e proprio diritto soggettivo.

Capovolgendo così un sistema normativo secolare, entriamo in un mondo nuovo, in cui il diritto non nasce più dalla definizione della legge, ma dal prudente arbitrio della giurisdizione. Non si potrebbe desiderare una più autorevole né più lucida consacrazione della convinzione secondo cui il magistrato non agirà più come mero lettore, bensì come vero e proprio creatore di diritto. In quanto tale, esso probabilmente non potrà contrapporsi al Parlamento ma potrà di sicuro affiancarlo ed, occorrendo, anche sostituirlo.

Le lancette della storia

Se questo è il punto di arrivo di una evoluzione cinquantennale, sarebbe gravemente illusorio pensare di poter spostare indietro le lancette della storia. Il passato non consente restaurazioni. Il disegno politico, che pure c'è stato, alla guida del processo di evoluzione secondo alcuni, di involuzione secondo altri, dianzi descritto, intanto ha potuto avere successo in quanto ha trovato nella realtà le condizioni obbiettive per la sua affermazione. Il fatto incontestabile è che la società italiana ha dimostrato di rifiutare quel modello di magistrato asettico arroccato nella torre d'avorio. Non è, quindi, possibile interpretare i comportamenti della magistratura attuale come devianti rispetto ad un modello originario ed immutabile di magistratura ideale. Sicché, quando si parla di riforma della magistratura, le iniziative politiche volte a recuperare valori antichi appaiono invariabilmente votate all'insuccesso.

Quello che invece si può e deve fare è razionalizzare l'esistente. Ciò che deve fare scandalo in uno stato di diritto non è l'esistenza di un nuovo modello di magistratura, ma la circostanza che esso sia venuto ad esistenza attraverso un processo di sviluppo di mero fatto, ignorando e spesso contraddicendo, forse la lettera, di certo la ratio, delle leggi tuttora vigenti. E per rimuovere lo scandalo l'unica via percorribile non è sopprimere la nuova realtà, ma adeguare ad essa le vecchie leggi. A cominciare dalla legge delle leggi, cioè dalla Costituzione. Il concorso pubblico può essere un buon strumento tecnico per selezionare, tra molti aspiranti, i più idonei a svolgere un'attività tecnica quale era indubbiamente l'analisi ermeneutica al tempo della dottrina pura del diritto. Ma nessun concorso può legittimare chicchessia allo svolgimento di una attività legiferante che si affianchi a quella del Parlamento nazionale. La potestà legislativa è parte della sovranità, e la sovranità nella Repubblica Italiana appartiene al popolo. Dunque soltanto il popolo, per riprendere un argomento del discorso di Gullo alla Costituente, può conferire legittimamente il potere di creare diritto. Non basta. L'attività del nuovo modello di magistratura non si limita a creare diritto con le proprie sentenze; ma si estende ad una fattiva e molto visibile partecipazione alla formazione legislativa in senso proprio (quella, cioè, tecnicamente riservata al Parlamento). Non solo il Consiglio superiore della magistratura ritiene di avere (e rivendica) il potere di esprimere pareri su questo o quel disegno di legge, ma lo stesso Consiglio o anche collegi giudicanti o uffici del pubblico ministero o addirittura singoli magistrati – se hanno risorse politiche di esternazione – rivendicano il potere di iniziativa nella formazione della pubblica opinione, e cioè, il potere di fare politica.

Ecco perché in termini di credibilità democratica delle nostre istituzioni, si è a suo modo imposto come indifferibile il principio, almeno parziale, della elezione popolare dei magistrati, già affacciatosi senza successo alla Costituente. Abbiamo detto parziale perché siamo consapevoli che il passaggio radicale, da un modello di magistratura di tipo "burocratico" a un modello di tipo "elettivo", rischierebbe di portare ad effetti di "rigetto" che potrebbero causare danni al sistema e non certo il raggiungimento degli scopi desiderati. Ogni trasferimento forzoso di tradizioni da un modello ad un altro può, infatti, causare incomprensioni ed opacità irrimediabili. Tuttavia, non è per nulla improponibile una forte correzione dell'assetto attuale, sia per garantire un equilibrio tra poteri egualmente legittimati, sia per restituire al modello "burocratico", ripiegatosi ed aggrovigliatosi su se stesso, un recupero di efficienza, che garantisca ai cittadini la tutela dei propri diritti in tempi e con metodi accettabili. Ed è, appunto, quel che qui si ha l'ambizione di proporre. La soluzione ordinamentale che appare più logica è quella di responsabilizzare i vertici degli uffici. Si tratta di dare ad essi poteri di direzione, controllo ed avocazione. Ed il metodo migliore per tale responsabilizzazione è quello di rendere diversi i criteri di scelta dei vertici, rispetto ai criteri "burocratici" di scelta degli altri magistrati.

Reclutamento

Col presente disegno di legge costituzionale si ipotizzano, pertanto, due nuovi tipi di reclutamento: il primo per i vertici degli uffici giudiziari centrali (Primo presidente della Corte di cassazione, Procuratore generale presso la Corte di cassazione), i quali, in quanto garanti del sistema nel suo complesso, dovrebbero essere nominati "dall'alto", cioè dalla più alta istanza di potere neutro, (sul modello inglese di nomina della Corona) dal Capo dello Stato, (sentiti per l'uno i Presidenti di Camera e Senato, per l'altro il Ministro della giustizia). Il secondo per i dirigenti degli uffici giudiziari locali, mediante elezione "dal basso", a suffragio universale, con base elettorale (elettorato cosiddetto attivo) differenziato a seconda del bacino di cittadini interessati. Gli eletti di questo secondo gruppo dovrebbero ricoprire i posti di Presidente di Corte d'appello, procuratore generale presso la Corte d'appello, e di procuratore della Repubblica e presidente di tribunale. Questa differenziazione (presidenziale ed a suffragio popolare) è motivata dalle esigenze, da un lato, di mantenere il collegamento coi vertici dello Stato per le magistrature superiori, garanti dell'ordinamento nel suo complesso, e, dall'altro lato, con la cittadinanza per la magistratura per molti versi locale (di "contea", per definirla all'inglese).

La diretta "interferenza" della cittadinanza nell'organizzazione della giustizia permetterebbe, in linea col modello di democrazia americano, di identificare maggiormente la collettività con chi materialmente ne amministra la funzione giudiziaria. Per altro verso, come accennato, una scelta diretta dei vertici degli uffici dovrebbe comportare una sorta di "circolo virtuoso" per cui, proprio in ragione di una responsabilizzazione dei vertici, si dovrebbe garantire una migliore efficienza dei singoli uffici, pur mantenendo il reclutamento degli altri magistrati mediante concorso, sistema idoneo a garantire al meglio la preparazione tecnica degli stessi. La legge ordinaria di attuazione della nuova norma costituzionale dovrà poi stabilire i requisiti per l'elettorato passivo, oltre all'ipotesi di rieleggibilità, ai poteri di intervento, direzione e controllo e segnalazione al Consiglio superiore della magistratura da parte dei vertici degli uffici nei confronti dei singoli magistrati, diversificando tali poteri per i magistrati requirenti e per quelli giudicanti.

La gestione della carriera dei magistrati diversi da coloro che verranno preposti agli uffici direttivi dovrebbe essere sempre disposta dal Consiglio superiore della magistratura. Il quale dovrebbe avere però composizione differente dall'attuale, in modo da evitare l'affermarsi di chiusure corporative. La struttura elettiva toglierebbe ambiguità alle esigenze che hanno portato sempre più la magistratura ad essere protagonista "politica" della storia degli ultimi vent'anni. Il sistema proposto servirebbe, inoltre, ad offrire al cittadino un sistema di giustizia che si proponga di risolvere nel modo migliore le due esigenze fondamentali, quella di assicurare la migliore decisione (attraverso il mantenimento di una magistratura che fa delle conoscenze tecniche e dell'esperienza un momento formativo imprescindibile) e l'altra di garantire un'efficienza accettabile e di poterne controllare i risultati. Se infatti il proposito tipico del modello continentale era quello di garantire "uguale giustizia per tutti" (in ossequio, da noi, al principio di uguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione), lo sviluppo esponenziale del contenzioso e la chiusura su se stesso del ruolo dello iusdicere hanno quasi vanificato lo stesso principio di uguaglianza facendo cadere il servizio giustizia in uno stallo ormai insostenibile (si pensi alla condizione disastrosa, già prima ricordata, in cui versa la giustizia civile). In tal modo il nostro sistema che dovrebbe assicurare la migliore preparazione e una corretta progressione tecnica dei singoli magistrati, è stato incapace di mantenere le promesse proprio per ciò che attiene il rispetto dei principi cardine che lo hanno ispirato (su tutti quello dell'uguaglianza). Non può infatti dirsi rispettoso del valore dell'uguaglianza un servizio che non sia in grado di assicurare quel minimo di efficienza consistente dell'organizzazione del lavoro e nello smaltimento normale delle domande che provengono dai cittadini.

Si tratta di far sì che il Primo Presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, i Presidenti e i procuratori generali presso le Corti d'appello, i presidenti e i procuratori della Repubblica presso i tribunali ordinari, assicurino, ciascuno nel proprio ambito di competenza, l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia secondo i criteri di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione attraverso una modifica dell'articolo 97 della Costituzione. Tale modifica appare necessaria, dal momento che, in caso di invarianza dell'articolo 97, qualcuno potrebbe ostacolare la riforma proprio in base al principio, sancito da tale articolo, secondo cui "i pubblici uffici sono organizzati in modo da assicurare il buon andamento e l'imparzialità". Va ricordato, infatti, come questa disposizione costituzionale sia stata tradizionalmente considerata non riguardante l'organizzazione giudiziaria. Da parte dei rappresentanti dell'ordine giudiziario si è, cioè, sempre sostenuta la netta divaricazione tra la pubblica amministrazione in generale, che essendo interessata al raggiungimento di obiettivi, potrebbe, astrattamente, porsi come controparte rispetto alle più diversificate posizioni soggettive, e la magistratura che, nonostante faccia parte della pubblica amministrazione, se ne staccherebbe per la necessità di essere imparziale nel senso più ampio, e quindi anche disinteressata e indifferente, agli strumenti necessari per l'applicazione della legge (e di fatto, dunque, al buon andamento).

Giustizia domestica

Nella logica sopra delineata, occorre altresì arrivare ad una composizione del Consiglio superiore della magistratura, che superi i rischi della "giustizia domestica", proprio in ragione del fatto che la riforma dovrebbe portare ad un maggior controllo sullo svolgimento efficiente della funzione giudiziaria.

Tornano in mente qui le parole con le quali nel febbraio del 1991 l'allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga inviava alle Camere la Relazione della Commissione presidenziale istituita per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura. "Ho più volte espresso" – notava Cossiga – "il mio profondo convincimento dell'alta rilevanza istituzionale che il Consiglio superiore della magistratura ha nel nostro ordinamento. Esso fa parte del complesso sistema di garanzie istituzionali apprestate dalla nostra Costituzione che al Consiglio riserva fondamentali attribuzioni in tema di amministrazione dei magistrati, di giurisdizione disciplinare, di costituzione degli uffici giudiziari e di collaborazione con il Parlamento e con il Ministro di grazia e giustizia in ordine ai problemi della giustizia. Acquisire un maggior grado di certezza in tema di attribuzioni e di funzionamento del Consiglio e in tema di ordinamento giudiziario, rendendo più saldo il presidio della riserva di legge posto a garanzia dell'indipendenza del giudice, è obbiettivo che può essere raggiunto solo con un l'intervento del Parlamento nell'esercizio della sua funzione legislativa e, ove ritenuto opportuno, nell'esercizio della sua funzione di revisione costituzionale".

Non c'è dubbio, stando ai lavori di quella Commissione, che il valore dell'indipendenza dei giudici venga sentito e tutelato in tutti gli Stati di diritto del mondo contemporaneo, ma che non in tutti si sia data vita a forme di "autogoverno" della magistratura tanto meccanicamente "autoreferenziali", quali quelle che hanno finito in Italia col collocare l'indipendenza "di tutti i magistrati" tanto al di sopra dell'indipendenza "di ogni magistrato".

Stando – si leggeva nella Relazione – "alla logica delle norme costituzionali sulla magistratura, si può ben sostenere che l'istituzione di un organo sul tipo del Consiglio superiore della magistratura fosse obbligata nell'an; ma non altrettanto può dirsi, quanto alle singole scelte mediante le quali si sono definite le componenti e le strutture essenziali del Consiglio. Ne danno la prova i lavori preparatori della Costituente, contrassegnati da notevoli incertezze circa gli stessi criteri di composizione del collegio. E ne offrono conferma i modelli adottati negli Stati europei, che, sotto questo aspetto, sono meglio assimilabili all'Italia: vale a dire nell'ordinamento francese ed in quello spagnolo". Il presente disegno di legge si pone quindi il problema di come pervenire ad una composizione e struttura del Consiglio superiore della magistratura diversa da quella che, per iniziativa allora dell'onorevole Scalfaro, si impose alla Costituente. Pregiudiziale ci è parso riuscire a separare ciò che la Costituzione esige da ciò che essa consente, distinguendo fra scelte attuative vincolate e scelte rimesse, invece, alla discrezionalità legislativa. L'obiettivo vuol essere l'approdo ad una certezza del diritto più forte di ogni corporativismo di funzione e di carriera: perché la Costituzione non sia esposta a negoziare se stessa con la giurisdizione. Il modello proposto per il Consiglio superiore della magistratura ricalca quello previsto per la Corte Costituzionale stabilendo che un terzo dei componenti è eletto da tutti i magistrati ordinari fra gli appartenenti alle varie categorie, un terzo dal Parlamento in seduta comune fra professori ordinari di Università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di servizio, ed un terzo nominato dal Presidente della Repubblica sia tra coloro che sono eleggibili dal Parlamento sia tra i magistrati ordinari. Si vuole in questo modo esaltare il potere neutro del Presidente della Repubblica, rendendo non formale il suo ruolo di Presidente del Consiglio superiore stesso. E proprio a tal fine viene soppressa la figura del Vice Presidente, inserendo la previsione che il Presidente della Repubblica, in caso di impedimento, designi tra i membri di nomina presidenziale, di volta in volta, un suo rappresentante a presiedere le sedute del Consiglio. Si è preferito adottare questo modello rispetto a quello inizialmente proposto alla Costituente da Leone e da Calamandrei per evitare un possibile conflitto diretto fra i rappresentanti di estrazione giudiziaria e quelli di nomina politica ed esaltare invece la funzione arbitrale e di garanzia del Capo dello Stato. D'altro canto alla formula della tripartizione delle nomine per la Corte costituzionale, alla Costituente si arrivò, su proposta degli onorevoli Conti e Leone, come soluzione di equilibrio fra la tesi di coloro che volevano la funzione di garanzia costituzionale affidata alla Corte di Cassazione (Einaudi e Nitti) e quanti volevano la Corte Costituzionale come organo espresso esclusivamente dalle assemblee elettive (Laconi, Gullo e Lami Starnuti). Partendo dalla considerazione – espressa dall'onorevole Leone – che nella composizione della Corte si doveva rispondere a "una duplice esigenza: che da una parte essa sia espressione sia pure indiretta della volontà popolare, dall'altro che abbia il massimo di giurisdizionalità, trattandosi di conflitto tra una legge e un'altra, tra un regolamento e una legge, tra il diritto del cittadino e una legge". Proprio nel ruolo del Capo dello Stato si ravvisò l'elemento di sintesi per evitare il prevalere all'interno della Corte di valutazioni esclusivamente politiche o di una visione giuridico - formalistica. Riproporre questo modello per la composizione del Consiglio superiore della magistratura appare la scelta più adeguata per evitare il prevalere dello spirito di casta e al tempo stesso escludere una eccessiva influenza della politica.

Un dogma

Nella nuova ottica che viene ad assumere il "servizio giustizia" appare opportuno introdurre il principio di perentorietà di tutti i termini processuali ed abolire l'oramai vetusto e, nella pratica, "sbriciolato" dogma dell'obbligatorietà dell'azione penale. L'inserimento tra i principi costituzionali di quello della perentorietà dei termini processuali è necessario per non rendere l'inefficienza arbitra delle controversie e per completare il sentiero riformatore avviato con il nuovo articolo 111, sulla razionale durata del processo. Ovviamente sarà compito della legge ordinaria dare concreto corpo a questa disposizione stabilendo un coerente e logico sistema di ammonimenti e sanzioni per chi violi il precetto. Si ritiene, poi, di dover abbandonare il principio di obbligatorietà dell'azione penale, in linea con un generale recupero di efficienza del sistema, finalizzato cioè a conservare e distribuire le energie degli uffici giudiziari (requirenti prima e giudicanti poi) al disbrigo migliore delle notizie di reato il cui approfondimento sia realmente utile per una efficace politica di repressione del crimine. Il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, nato in sintonia con quello di uguaglianza e suo connotato tipico nella funzione giudiziaria penale, è andato progressivamente perdendo le sue concrete peculiarità, divenendo un dogma astratto più che un reale criterio di svolgimento dell'attività requirente. Ciò anche a causa di direttive ausiliarie degli uffici dell'accusa che, riconoscendone l'inefficacia e volendo limitarne la portata, ne hanno reso manifesto il ruolo di mero "inciampo processuale" che obbliga il sistema a "subire" processi privi di reale e concreto interesse.

Come in tutti i sistemi a tradizione di "opportunità" nell'esercizio dell'azione penale, si è introdotta la previsione che vengano formulati criteri e principi in base ai quali dare preminenza a specifiche ipotesi di reato nell'esercizio dell'azione penale. La formulazione di tali criteri, affidata alla Conferenza dei Procuratori Generali, consentirà la migliore utilizzazione delle risorse in relazione alle differenti esigenze e finalità repressive esistenti nelle diverse aree del Paese.

I media

Passando all'analisi del contenuto degli articoli del disegno di legge, l'articolo 1 prevede che venga inserito, dopo il decimo, un comma ulteriore all'articolo 87 della Costituzione, inserendo tra le competenze del Presidente della Repubblica quello di nominare il Primo Presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione. L'articolo 2 modifica l'articolo 97 della Costituzione, prevedendo che il Primo Presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione, i Presidenti e i Procuratori Generali presso le Corti d'Appello, i Presidenti e i Procuratori della Repubblica presso i Tribunali ordinari, assicurino, ciascuno nel proprio ambito di competenza, l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia secondo i criteri di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione.

Per frenare, poi, la tendenza all'esposizione mediatica dei magistrati, nel nuovo testo dell'articolo 97 viene previsto che solo i vertici degli uffici, legittimati dalla nomina presidenziale o dall'elezione popolare, abbiano potere di esternazione sull'attività del proprio ufficio. L'articolo 3 riscrive l'articolo 104 della Costituzione modificando la composizione del Consiglio superiore della magistratura come prima illustrato, al fine di superare i rischi della giustizia domestica, anche in ragione del fatto che la riforma dovrebbe portare ad un maggior controllo sullo svolgimento efficiente della funzione giudiziaria. Non è stata prevista la partecipazione di diritto al Consiglio superiore della magistratura del Primo Presidente e del procuratore generale della Cassazione dal momento che con i nuovi criteri proposti la loro nomina spetta al Capo dello Stato. Va quindi rimessa al prudente apprezzamento del Presidente della Repubblica la scelta di inserire o meno tra i membri del Consiglio superiore della magistratura, la cui nomina è di sua spettanza, il Primo Presidente e il procuratore generale della Cassazione.

L'articolo 4 inserisce un nuovo comma all'articolo 105 della Costituzione, prevedendo la possibilità per il Governo di chiedere pareri al Consiglio superiore della magistratura in merito a problemi relativi al sistema giudiziario. Si intende in tal modo delimitare con chiarezza le possibilità di intervento del Consiglio superiore della magistratura sui problemi della giustizia, evitando il ripetersi di anomali pronunciamenti.

L'articolo 5 sostituisce l'articolo 106 della Costituzione. Oltre a specificare le procedure per la nomina da parte del Presidente della Repubblica del Primo Presidente e del procuratore generale della Corte di cassazione, si prevede che i presidenti e i procuratori generali presso le Corti d'appello, nonché i presidenti e i procuratori della Repubblica presso i tribunali ordinari, vengano eletti a suffragio universale e diretto. I magistrati, così nominati o eletti, restano in carica quattro anni e sono rieleggibili una sola volta alla medesima carica.

L'articolo 6 riscrive l'articolo 110 della Costituzione inserendo la possibilità per il Primo Presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione, i presidenti e i procuratori generali delle Corti d'appello, i presidenti e i procuratori della Repubblica presso i tribunali di proporre l'azione disciplinare avanti il Consiglio superiore della magistratura nei confronti dei magistrati ordinari, per violazione di legge o mancato rispetto dei criteri di organizzazione degli uffici loro impartiti. Con l'articolo 7, il quale introduce in Costituzione il principio che tutti i termini processuali sono perentori, si intende contribuire alla soluzione del problema della intollerabile lentezza dei processi. E' probabile che dal punto di vista del cittadino sia questo il problema più grave del nostro sistema di giustizia, la quale finisce con l'essere denegata giustizia quando la sentenza definitiva arriva con i tempi abituali nella odierna situazione. E' ben noto del resto che l'Italia è stata condannata molte volte dalla Corte di giustizia delle Comunità europee per il problema di cui si discute. Ora, la lunghezza del processo deriva da una molteplicità di cause, che vanno dalle basi culturali della nostra mentalità giuridica alla scarsità dei mezzi, finanziari, umani, materiali, messi a disposizione della giustizia. Ma deriva anche da quella consolidata prassi interpretativa, giurisprudenziale e dottrinale, che degrada moltissimi termini processuali a semplici raccomandazioni che possono essere serenamente disattese da qualsiasi protagonista del processo. Conferire rango costituzionale al rispetto dei tempi di scadenza, non a caso imposti dai codici di procedura, è un efficace strumento per ridurre l'attesa della decisione.

Infine, l'articolo 8 – prevedendo che l'azione penale sia esercitata dal pubblico ministero secondo criteri indicati annualmente da una Conferenza dei procuratori generali di tutte le Corti d'appello, presieduta dal procuratore generale presso la Corte di cassazione – modifica il principio della obbligatorietà dell'azione penale nel senso di renderlo più duttile e, dunque, più idoneo a corrispondere alle esigenze della realtà.

L'applicazione meccanica del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale comporta, infatti, almeno due conseguenze gravissime. La prima – di grande rilevanza – è che anche la denuncia più evidentemente infondata o strumentale, costringendo il Pubblico Ministero ad avviare l'azione penale, cagiona al denunciato, anche se in seguito (e magari dopo molti anni) verrà prosciolto o assolto – gravissimi ed irreparabili danni, sia morali che economici (quando non addirittura limitazioni alla libertà personale). Un paese civile non può e non deve avere un sistema giuridico di questo tipo. La differenza principale fra una democrazia e una tirannide è nel rifiuto o nella esaltazione della cultura della forca. La seconda conseguenza, di rilievo pratico, è che non è opportuno costringere il pubblico ministero ad inseguire qualsiasi tipo di denuncia, anche quelle che a suo giudizio appaiono evidentemente infondate. Nello stato di inefficienza in cui agonizza il processo penale, è essenziale che l'attenzione ed il tempo dell'inquirente non vengano distratti dalla cura degli affari in cui l'accusa appaia ragionevolmente fondata. Parallelamente all'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale, al fine di non lasciare totalmente sguarnita la vittima del reato, è previsto che vengano "fatti salvi i diritti della persona offesa", alla quale la legge ordinaria dovrà poi consentire azioni autonome o correttive dell'inazione del pubblico ministero, sul modello di ciò che avviene in altri Paesi di tradizione processuale penale simile alla nostra, come la Francia.

Razionalizzare

Chi presenta questo disegno di legge è consapevole del fatto che la soluzione proposta di elezione dei magistrati può apparire traumatica, se si pensa al modello tradizionale che ne escludeva ogni possibilità.

Ma chi guarda senza pregiudizi alla realtà attuale dovrà riconoscere che l'elezione popolare dei giudici è l'unica via per razionalizzare l'esistente e superare le discrasie che derivano dal contrasto insanabile tra leggi superate dalla realtà, ma pur sempre vigenti ed effettivo andamento delle cose. E comunque, al di là di ogni ambizione provocatoria, la proposta si lega ad una generale riforma della natura e composizione del Consiglio superiore della magistratura. Ma perché elezioni dei soli titolari degli uffici direttivi? La scelta, da un lato, nasce dal timore – dianzi illustrato – che un sovvertimento radicale del modello tradizionale possa nuocere all'obiettivo di un miglior funzionamento del sistema giudiziario, dall'altro essa consente, attraverso la responsabilità dei vertici legittimati dall'investitura popolare, il recupero di quell'efficienza che il modello "burocratico" è andato inesorabilmente perdendo. Quello che peraltro ci preme sottolineare è che, in una stagione in cui il conflitto fra l'ordine giudiziario e gli altri poteri dello Stato è divenuto motivo di preoccupazione centrale per tutte le forze politiche, sia pure da angoli di visuale diversi, e quando sempre più numerose ed autorevoli sono le voci che si alzano per sottolineare la necessità di por mano ad una riforma del pianeta giustizia, non sono possibili ulteriori rinvii. E avanzare ipotesi "audaci", magari azzardate ma che affondano le loro radici in riflessioni già affacciate nel dibattito della Costituente, può rappresentare un contributo non marginale a ritrovare il sentimento della Repubblica che alla Costituente fu alto.

DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

1. All'articolo 87 della Costituzione, dopo il decimo comma, è inserito il seguente: "Nomina il Primo Presidente ed il procuratore generale della Corte di cassazione".

Art. 2.

1. All'articolo 97 della Costituzione, dopo il secondo comma, è inserito il seguente: "Il Primo Presidente ed il procuratore generale della Corte di cassazione, i presidenti ed i procuratori generali presso ciascuna Corte d'appello ed i presidenti ed i procuratori della Repubblica presso ogni tribunale ordinario, ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura e del Ministro della giustizia, assicurano e dispongono, ciascuno nel proprio ambito di competenza e secondo le norme sull'ordinamento giudiziario, l'organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia secondo i criteri del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione. Detengono, in via esclusiva, la facoltà di esternazione sulle vicende afferenti l'attività compiuta dal proprio ufficio giudiziario, fatti salvi in ogni caso i diritti dei terzi eventualmente danneggiati dalle dichiarazioni rese".

Art. 3.

1. L'articolo 104 della Costituzione è sostituito dal seguente:

"Art. 104. - La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica. I componenti del Consiglio sono eletti per un terzo da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio e per un terzo nominati dal Presidente della Repubblica tra i candidati aventi i medesimi requisiti stabiliti per i componenti designati dal Parlamento o dai magistrati ordinari. Nel caso di proprio impedimento, il Presidente della Repubblica designa a presiedere la seduta del Consiglio un suo rappresentante, scelto, di volta in volta e secondo rotazione, tra i membri di nomina presidenziale. I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale, di Città metropolitana, provinciale o comunale".

Art. 4.

1. All'articolo 105 della Costituzione è aggiunto, in fine, il seguente comma:

"Su richiesta del Governo o dell'Assemblea di uno dei due rami del Parlamento, il Consiglio superiore della magistratura può rendere pareri su problemi relativi all'ordinamento giudiziario".

Art. 5.

1. L'articolo 106 della Costituzione è sostituito dal seguente:

"Art. 106. - Le nomine dei magistrati di norma hanno luogo per concorso.

Il Primo Presidente della Corte di cassazione è nominato dal Presidente della Repubblica sentiti i Presidenti della Camera e del Senato. Il procuratore generale della Corte di cassazione è nominato dal Presidente della Repubblica sentito il Ministro della giustizia. I Presidenti di Corte d'appello ed i procuratori generali presso ciascuna Corte d'appello sono eletti a suffragio universale e diretto dagli elettori del distretto secondo le norme sull'ordinamento giudiziario. I presidenti ed i procuratori della Repubblica presso ogni tribunale ordinario sono eletti a suffragio universale e diretto secondo le norme sull'ordinamento giudiziario. I magistrati nominati dal Presidente della Repubblica o eletti a suffragio universale restano in carica quattro anni e sono riconfermabili o rieleggibili alla medesima carica per una sola volta.

Le norme sull'ordinamento giudiziario stabiliscono i criteri di nomina e di elezione e le incompatibilità per i magistrati nominati od eletti, nonché i criteri per la loro sostituzione in caso di morte o impedimento a svolgere le proprie funzioni".

Art. 6.

1. L'articolo 110 della Costituzione è sostituito dal seguente:

"Art. 110. - Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, spettano al Ministro della giustizia l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Ciascuno per le proprie competenze e con riferimento ai propri uffici giudiziari, il Primo Presidente ed il procuratore generale della Corte di cassazione, il presidente ed il procuratore generale presso ogni Corte di appello, il presidente ed il procuratore della Repubblica presso ogni tribunale ordinario possono proporre avanti il Consiglio superiore della magistratura l'azione disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari per violazione di legge o mancato rispetto dei criteri di organizzazione degli uffici loro impartiti".

Art. 7.

1. All'articolo 111 della Costituzione, secondo comma, è aggiunto il seguente periodo:

"Tutti i termini processuali civili, penali e amministrativi sono perentori".

Art. 8.

1. L'articolo 112 della Costituzione è sostituito col seguente:

"Art. 112. - Fatti salvi i diritti della persona offesa, il pubblico ministero esercita l'azione penale secondo i princìpi e i criteri indicati annualmente da una conferenza dei procuratori generali di tutte le Corti di appello presieduta dal procuratore generale presso la Corte di cassazione".